Il cuore di Gesù è il cuore del pastore

 

Giornata per la Santificazione dei Sacerdoti

Duomo di Teramo, 19 giugno 2020

 

Meditazione di S. Ecc. Mons. Fabio FABENE

Segretario Generale del sinodo dei Vescovi

 

1-      Il costato del Crocifisso aperto

Ringrazio il vostro Vescovo Mons. Leuzzi per avermi invitato a vivere nella preghiera questa Giornata di santificazione sacerdotale con voi, in questa bella Cattedrale, della quale Mons. Leuzzi è innamorato. Ogni volta che parla di voi e del suo popolo lo fa proprio come un innamorato che di volta in volta scopre la bellezza della sua sposa. Questo ci edifica molto, perché ci fa comprendere quanto sia profondo il legame tra il Vescovo e la sua Chiesa. E’ il legame che tocca le corde del cuore del pastore con la sua Chiesa. Un legame che non ha uguale nella società civile e in altre aggregazioni, il vincolo che non si limita ad animare una comunità, ma che lo porta a dare la vita come il Buon Pastore della parabola del Vangelo e che ha la sua massima manifestazione nel Crocifisso, nel quale vediamo realizzata la parola stessa di Gesù, che offre la vita per il suo gregge.

In questa solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, accogliendo l’invito del Vangelo di Giovanni (Gv 19,32-37), siamo chiamati a volgere lo  sguardo verso Colui che hanno trafitto. L’evangelista, che era sotto la croce insieme alla Madonna, si concentra sul costato trafitto di Gesù Crocifisso, dal quale esce acqua e sangue. Nello svolgimento delle molteplici attività che comporta il nostro ministero, qualche volta forse anche dispersive e non propriamente appartenenti al nostro ministero, è fondamentale tenere fisso lo sguardo sul Cuore di Cristo. E’ una questione di fede, come dice lo stesso evangelista: “affinchè credano a colui che ha visto e ne rende testimonianza, affinché anche voi crediate (Gv 19,35).

E’ lo sguardo della fede, che contempla, cioè penetra profondamente il mistero della “trafittura” del costato di Gesù. E’ uno sguardo che entra nell’interiorità di Gesù per contemplare il suo stesso amore, che è l’amore di Dio in lui incarnato e divenuto visibile. S. Bonaventura al riguardo afferma: “attraverso la ferita visibile vediamo la ferita dell’amore invisibile”. Nel cuore di Gesù riconosciamo che Dio ha un cuore per noi.

I Padri della Chiesa hanno veduto nell’acqua e nel sangue usciti dal cuore trafitto i simboli dei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia. S. Agostino scrive: “In tal modo fu spalancata la porta della vita, da cui fluirono i sacramenti della Chiesa, senza i quali non perveniamo alla vita che è la vera vita”. San Bernardo, richiamandosi al Cantico dei Cantici, interpretò l’amore cantato in quel libro nel senso dell’amore di Dio divenuto visibile nel cuore trafitto di Gesù. Ancora San Bonaventura approfondì teologicamente l’intuizione di San Bernardo e vide nella ferita del costato di Gesù come una ferita d’amore; infatti chi ama è ferito dall’amore (Ct 4,9). Il nostro cuore, spesso arido d’amore o stanco, può infiammarsi dell’amore del cuore di Gesù. Il suo amore può ferire anche il nostro cuore, per questo arriva a dire: il cuore di Gesù diventa il nostro cuore.

Questa mistica personale è stata sviluppata da diverse sante donne nel Medioevo, tra le quali S. Geltrude, che ha una celebre frase: “Vedi non ti ho amato per scherzo”. Pensiamo anche a Santa Margherita Maria Alacoque, fino a Santa Faustina Kowalska. Per lei la misericordia è la più grande e più eccelsa delle proprietà di Dio, è la perfezione divina per antonomasia. San Giovanni Paolo II vide nel messaggio di Santa Faustina un importante messaggio per il nostro tempo.

        

2-      L’incontro del Risorto con Tommaso

L’altra immagine Giovannea sulla quale vorrei brevemente soffermarmi è quella dell’’incontro del Risorto con Tommaso, l’incredulo. Egli giunse alla fede solo quando vide e toccò la ferita aperta del costato di Gesù Risorto (Gv 20,24-29). Questo incontro può esserci di aiuto nei momenti del dubbio, della stanchezza, dell’incomprensione e perfino della delusione. Come all’apostolo anche a noi il Risorto ci dice “metti la mano nel mio costato, e non essere più incredulo ma credente” (Gv 20,27). La nostra fede, la nostra vocazione e la nostra missione si ravvivano nell’incontro personale con il Risorto, mettendo la nostra mano nel costato di Cristo ritroviamo la gioia della fede e della nostra totale appartenenza. Soltanto facendo l’esperienza intima dell’incontro con il Risorto, con Giobbe possiamo affermare: “ prima ti credevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). E’ l’esperienza dell’amore di Dio nella nostra storia personale. A differenza della Maddalena non possiamo toccare fisicamente Gesù e nemmeno mettere la mano nella ferita del suo costato, ma spiritualmente il Cuore trafitto di Gesù è la via per penetrare nell’amore misericordioso di Dio ferito per nostro amore.

Entrando spiritualmente nella ferita del costato di Gesù scopriamo la profondità della paternità divina, una paternità che è anche materna, come appare da diversi passi dell’AT. Il costato di Gesù è allo stesso tempo il petto virile al quale si appoggia il bambino e il seno della madre dove si beve il “latte spirituale” di cui parla San Pietro (1Pt 2,2). Da quel petto noi attingiamo l’acqua viva dello Spirito, bevendo al Cuore del Salvatore.

La contemplazione del cuore di Gesù ci permette di scoprire la personalità di Cristo e i suoi profondi sentimenti che hanno animato la sua missione redentrice. Nella mia città di Montefiascone ha vissuto una monaca, Priora del Monastero delle Benedettine, Cecilia Bai, una mistica che ha scritto raccontando “La vita intima di Gesù”, ciò che il Signore provava interiormente durante la sua missione. Al di là della diversità del linguaggio, i sentimenti del Signore sono gli stessi di quelli che emergono dai Vangeli.

In essi, il Cuore di Gesù appare un cuore che ama. Ama il Padre, che chiama affettuosamente Abbà e fa “quello che gli piace” (Gv 8,29). Questo è il suo sentimento più profondo. A questo amore Egli ha unito l’amore per l’uomo: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi…Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,9.14-15). Dopo la Risurrezione, nonostante che tutti l’abbiano abbandonato, con pazienza amorevole raduna il “piccolo gregge”.

L’amore di Gesù ha avuto il suo culmine nell’Ultima Cena quando “dopo aver amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine” (Gv 13,1) cioè, come sappiamo, intensamente, pienamente, in sommo grado. Un amore oltre il quale non è possibile andare. Donando l’Eucaristia, Egli rimane sempre con noi e si dona a noi nel “pane spezzato” e nel “sangue versato” per la salvezza del mondo.

Inoltre, il Cuore di Gesù è un cuore compassionevole . Tante volte il Vangelo mette in evidenza questo sentimento di Gesù. Matteo ci dice che Gesù “sentì compassione” (Mt 9,36) per le folle che erano stanche e sfinite. Si commosse di fronte alle folle che lo attendevano al di là del lago (Mc 6,30-34). Mosso a compassione guarì il lebbroso (Mc 1,41) e risuscitò il figlio della vedova di Naim, perché sentì compassione verso questa donna vedova e sola (Lc 7,13). Gesù ha compassione anche per Marta e Maria alle quali era morto il fratello Lazzaro. Davanti al loro pianto “si commosse profondamente…si turbò…scoppiò in pianto” e pianse per la morte dell’amico (cf. Gv 11,33-35). Luca ricorda il “pianto di Gesù” per la sorte di Gerusalemme per non aver riconosciuto il tempo della visita di Dio (cf. Lc 19,43-44).

Gesù poi ha un Cuore misericordioso. Questo sentimento appare da tutto il Vangelo, che ci dice che Gesù è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10). Ecco allora Zaccheo, Levi, la pecorella smarrita, la peccatrice dalla quale si lascia baciare i piedi, l’adultera.

Il Vangelo ci mostra anche che il Cuore di Gesù è un cuore sensibile ai gesti di affetto e di amicizia che si compiono verso la sua persona, come anche soffre per l’ingratitudine, ma d’altro canto è sensibile anche alla riconoscenza (cf. Lc 17,17-18).

Inoltre, quello di Gesù è un cuore mite ed umile come dice di se stesso (Mt 11,29) ed è un Cuore che soffre per l’animosità, l’acredine, il disprezzo e l’odio dei suoi avversari (Lc 7,33-34; Gv 9,24; Mc 2,7; Gv 10,33 ecc.). Ha sofferto profondamente per l’incredulità del suo popolo che amava e voleva salvarlo. Questo dolore è sfociato nei “guai” da lui pronunciati verso le città dove aveva maggiormente compiuto i miracoli e predicato  (Mt 11,20-22). La sofferenza più terribile di Gesù è stata l’esperienza sulla croce dell’abbandono del Padre (Mc 15,34).

Il cuore di Gesù è un Cuore in agonia. Nell’Orto degli Ulivi, Gesù ha sperimentato una tristezza mortale, “l’anima mia è triste fino alla morte” (Mc 14,34), e ancora dice il Vangelo “cominciò a sentirne paura e angoscia” (Mc 14,33). In questa angoscia Gesù pregava che, se fosse possibile, passasse quell’ora (cf Mc 14,35). Qui vediamo Gesù veramente e pienamente uomo che va incontro alla morte condividendo totalmente fragilità e la paura di fronte al mistero della sofferenza e della morte. In questo dolore profondo Gesù è rimasto solo. Gli apostoli si sono addormentati e da solo ha portato nel suo corpo i peccati dell’umanità per salvarla e li porterà fino alla fine dei tempi, perché rimane in agonia per la storia fatta di peccati, di guerra, di ribellioni. Ancora oggi Egli prende su di sé il male per salvarlo e redimerlo con l’offerta che ogni giorno Egli fa di se stesso nell’Eucaristia.

        

3-      Il cuore del Pastore

Il cuore di Cristo è quello del Buon Pastore e deve essere il nostro cuore, che mediante il sacramento dell’Ordine siamo stati conformati a Cristo, Sacerdote e Pastore. Questa conformazione oggettiva ed interiore, che ci abilita ad agire in persona Christi capitis, deve diventare esistenziale.

Tutta la nostra vita deve esprimere il nostro essere pastori. Siamo stati scelti con affetto di predilezione da Cristo stesso per essere, come lui e dietro di lui, pastori.      Fin dall’inizio del suo Pontificato, il Papa ci invita a non dimenticare mai che siamo pastori nella celebrazione dell’Eucaristia, nella quale dobbiamo caricarci sulle spalle il popolo che ci è affidato portando all’altare i nomi dei nostri fratelli, incisi nel cuore. “Quando ci rivestiamo con la nostra umile casula, diceva il Papa nella prima Omelia per il Giovedì Santo, può farci bene sentire sopra le spalle e nel cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele…” (Omelia, Giovedì Santo 2013). L’Eucaristia che celebriamo ogni giorno, fonte e culmine della vita cristiana e del nostro ministero, ci conduce verso il nostro popolo che incontriamo nelle nostre giornate. Su coloro che ci sono affidati dobbiamo spargere l’olio con il quale siamo stati unti. E lo dobbiamo fare con gli stessi sentimenti del Cuore di Gesù, che “passò beneficando e risanando tutti”, stando vicini al nostro popolo, proprio come ha fatto Gesù. Durante il lokdown dei mesi scorsi molti parroci, sacerdoti e Vescovi, a cominciare dal Papa, hanno trovato il modo per stare vicino al loro popolo. Ciò è stata una grande testimonianza. Incontrando una signora in un supermercato mi ha ringraziato perché i sacerdoti hanno confortato e dato speranza. Senza di loro ci sentivamo abbandonati e soli!

 

4-      Vicinanza misericordiosa

La nostra vicinanza è “misericordiosa”. L’invito del Vangelo di Luca “Siate misericordiosi come il Padre vostro che è nei cieli” (Lc 6,36) riguarda soprattutto noi, “ministri di misericordia” nel confessionale e nei confronti di tutti coloro che incontriamo sul nostro cammino, verso i quali dobbiamo essere compassionevoli lasciandoci anche commuovere davanti a tante fragilità di ogni genere, da quelle morali a quelle sociali ed economiche, come anche da tanta solitudine che genera la nostra società. Anche su questo punto, la pandemia ha svelato le solitudini nascoste del nostro tempo, basta pensare a quella degli anziani, alle persone che vivono da sole, alle situazioni matrimoniali difficili e a tutte quelle situazioni in cui manca la speranza.

Questa pastorale “misericordiosa” viene declinata da Amoris Laetitia attraverso tre verbi (che hanno fatto tanto discutere): accompagnare, discernere e integrare le fragilità. Tre verbi, che se attuati cambiano la nostra pastorale e il nostro rapporto con gli altri, aiutandoci ad essere veramente padri. Se essi riguardano in modo immediato le situazioni matrimoniali cosiddette “irregolari”, in realtà mi sembra che possano guidare tutta la nostra azione.

Si tratta di mettere in atto “la logica della misericordia pastorale” i cui criteri ci sono offerti dal Papa stesso nella suddetta Esortazione Apostolica.

La vicinanza diventa accompagnamento misericordioso e paziente delle persone, rispettando le loro tappe di crescita. Come pastori dobbiamo proporre sempre l’ideale pieno del Vangelo, lasciando spazio alla «misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile», e ponendo sempre attenzione al bene che lo Spirito sparge anche in mezzo alla fragilità. Nel recente discorso alle Pontificie Opere Missionarie il Papa si è richiamato proprio alla pazienza di Gesù, così come emerge dal Vangelo, affermando che «un cuore missionario riconosce la condizione reale in cui si trovano le persone, con i loro limiti, i peccati, le fragilità, e si fa “debole con i deboli” (1Cor 9,22)». Ha ribadito anche che la Chiesa non è una dogana, come aveva già affermato nella Evangelii gaudium. Il pastore è chiamato insieme con gli altri, al fianco di tutti.

– Dobbiamo educare i fedeli ad assumere la logica della compassione verso tutte le persone, particolarmente quelle fragili, in modo da evitare giudizi spesso troppo duri e impazienti. Il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare (cfr Mt 7,1; Lc 6,37).

– Le nostre comunità devono essere una casa dalle porte aperte, quella casa paterna dove ognuno trova il suo posto e  dove tutti si sentono accolti e nessuno escluso.  Il comportamento stesso di Gesù, il quale è Pastore di cento pecore, non di novantanove, (perché  le vuole tutte), deve diventare il nostro comportamento, in modo che a tutti giunga  il balsamo della misericordia di Dio.

In questo modo la nostra azione pastorale attua la tenerezza di Gesù e permette di facilitare l’incontro con il Risorto, che rinnova la vita, ridona speranza e salva.

Questa prospettiva pastorale è quella del Concilio Vaticano II. Ricordiamo tutti le parole di San Paolo VI, proprio alla conclusione del Concilio, dove ha rievocato “l’antica storia del Samaritano” dicendo che è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Questa parabola è stata richiamata dal vostro Vescovo nel suo ultimo libro “Il mondo soffre per mancanza di pensiero. Da Paolo VI a Francesco”. Egli, per ridefinire il cammino ecclesiale dopo la pandemia, come primo punto propone la necessità di allargare gli orizzonti della carità, seguendo le indicazioni del capitolo venticinque di Matteo. L’immagine del buon samaritano gli dà modo di sviluppare la carità nelle tre forme che appaiono dalla parabola stessa: la carità samaritana incarnata dal samaritano, quella intellettuale testimoniata dal gestore dell’albergo e, infine, quella politica esercitata dal samaritano in veste di finanziatore.

 

5-      Vicinanza comunionale

La nostra vicinanza al popolo crea comunione. Qui tocchiamo la nostra stessa identità, siamo infatti uomini e ministri di comunione. Vorrei solo richiamare alcuni punti per vivere intensamente il nostro sacerdozio.

  • Il Sinodo dei Vescovi del 1985, celebrato a 20 anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II ha ravvisato nella comunione l’idea centrale dei documenti dello stesso Concilio e Giovanni Paolo II nella Redemptor hominis ha definito la comunione come la“regola chiave di tutta la prassi cristiana” (n.21). Ci vengono subito in mente le parole degli Atti degli Apostoli dove si descrive la vita della prima comunità di Gerusalemme: “tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune” (At 2,44).
  • In questa prospettiva mi sembra necessario riscoprire la ricchezza del n. 9 della Lumen Gentium, dove si parla del popolo di Dio come “popolo messianico” e se ne descrivono le connotazioni essenziali. Il popolo di Dio ha per capo Cristo, ciò significa che Egli è il solo Signore della Chiesa; nessuno nella Chiesa può fare da padrone, siamo tutti chiamati alla sequela e al servizio.
  • Quel Popolo, inoltre, ha per condizione la dignità e la libertà dei figli. Ogni battezzato è figlio di Dio al quale dobbiamo il rispetto che si deve a Cristo, in ciascuno va riconosciuta la presenza del Signore e si deve condividere la gioia della fraternità.
  • Dobbiamo camminare nella speranza verso il Regno. La Chiesa è comunità di pellegrini, il cui sguardo è proteso sempre in avanti. La speranza sostiene le asperità del cammino e indica la meta verso cui andare.

Questi elementi della Chiesa sono essenziali e se una comunità, dalla parrocchia alla diocesi, grande o piccola, li dimentica, la comunione diventa un mero elemento sociologico. E noi da ministri della comunione diventiamo animatori sociali.

Siamo allora invitati a pensare alla Chiesa e a viverla con il Vescovo, con il Presbiterio e con la comunità ecclesiale intera, formando una coscienza laicale matura che si impegni nella città dell’uomo ed edifichi la Chiesa. Ciò ci impegna a promuovere una pastorale dell’insieme che coinvolga tutte le componenti ecclesiali, tutte le energie a servizio della missione della Chiesa, evitando ogni lottizzazione, accogliendo i doni, i carismi e i ministeri che lo Spirito suscita nelle comunità, armonizzandoli, tenendo conto che la diversità è ricchezza ed elemento essenziale della Chiesa insieme all’unità.

Il Sinodo dei Vescovi del 1971, le cui conclusioni vennero accolte da Paolo VI parla del sacerdozio ministeriale come di un ministero essentialiter communitarium e in servitium communionis (Ultimi temporibus, 6), istanze che il Catechismo ha fatto proprie (nn. 1536-1600).

La contemplazione del Cuore di Gesù, messo a morte per riunire i figli di Dio dispersi (cf. Gv 11,52), ci aiuti a rimanere fedeli alla nostra vocazione e a promuovere una pastorale ed una missione di comunione, facendo sentire i nostri fratelli una sola famiglia appartenente alla stessa Chiesa in unione al Papa e al Vescovo. In questo tempo nel quale sembra riemergere la contrapposizione tra conservatori e progressisti come nel dopo-concilio o vengono lanciati attacchi insolenti contro il Papa da uomini di Chiesa, oppure sembra prevalere il proprio sentire e la propria pastorale, noi sacerdoti siamo chiamati a costruire giorno dopo giorno l’unità e a coltivare ogni giorno la comunione. Come anche siamo chiamati nel mondo di oggi ad essere animatori di speranza, di riconciliazione e di pace.

Solo vivendo in comunione nel presbiterio intorno al Vescovo e insieme riuniti dall’amore di Cristo, possiamo essere pastori che con gioia, misericordia e vicinanza, conducono il gregge del Signore.

 

Scarica la Meditazione di S. Ecc. Mons. Fabio Fabene – 19 giugno 2020 (pdf)