Monsignor Guido Marini a Teramo

Video, testo e foto dell’incontro

Sintesi video

 

Il testo dell’intervento

Quando leggiamo il vangelo di San Luca, tra le pagine più belle che noi ascoltiamo ce n’è una, ed è quella nella quale l’evangelista racconta un incontro speciale: quello che due dei suoi discepoli hanno avuto con Gesù all’indomani della risurrezione. Sulla via che da Gerusalemme andava verso Emmaus: è l’episodio che noi ricordiamo come quello dei discepoli di Emmaus. Questo episodio Luca lo scrive, certo perché è un episodio accaduto, ma lo scrive rispondendo ad una domanda della comunità cristiana a cui egli si rivolgeva e scriveva. Era passato del tempo dall’avvenimento della risurrezione: ormai quella generazione era una generazione cristiana che non aveva visto Gesù, non l’aveva conosciuto. Allora la domanda che scaturiva da questa comunità e che questa comunità rivolge all’evangelista è:
Ma noi, oggi, come possiamo incontrare il Signore risorto?
Noi comunità cristiana, nel presente della nostra vita, com’è che incontriamo il risorto, presente e operante? Luca scrive la pagina dei discepoli di Emmaus. Certo non è qui il momento in cui soffermarci nel dettaglio, però, se noi anche velocemente scorriamo il racconto di san Luca ci accorgiamo che nella vicenda dei due discepoli di Emmaus viene illustrata una Messa. È una celebrazione eucaristica.
C’è un primo momento: i due discepoli smarriti lasciano Gerusalemme per andare verso Emmaus, cioè scappano dalla città, smarriti, disorientati. In questa prima parte del racconto non ci è difficile cogliere la parte iniziale della Messa, quando noi entriamo nella celebrazione e vi entriamo spesso smarriti, disorientati, affaticati, proprio come quei due discepoli; ed è per questo che apriamo il cuore per chiedere perdono. Così inizia la nostra celebrazione. I discepoli di Emmaus, disorientati e smarriti, sollecitati da Gesù, cominciano ad aprire il cuore: perché è quello che stanno vivendo, per mettergli in mano quella loro vita così addolorata e affaticata.
Gesù non soltanto sollecita: entra in dialogo e parla con loro, aprendoli al significato delle scritture. Non è questo il momento della Liturgia della Parola che noi viviamo nella celebrazione eucaristica? Poi, dopo che hanno percorso un tratto di cammino, si fermano e Gesù cosa fa? Prende il pane, lo spezza, dà la benedizione: che cos’è questa se non la Liturgia Eucaristica? Infine, i due discepoli riprendono il cammino verso Gerusalemme, dove vanno ad annunciare di aver visto il Signore risorto. Non è questo il momento conclusivo della celebrazione quando siamo invitati ad andare, non semplicemente perché usciamo da un luogo ma perché siamo invitati ad andare per annunciare ciò che abbiamo vissuto?
Perché abbiamo ricordato questo? Perché quando san Luca vuole rispondere a quella domanda: “amici oggi dove incontriamo Gesù risorto, come vediamo Gesù risorto?”, Luca risponde: “oggi il Risorto è presente per voi nella celebrazione eucaristica, è presente nella liturgia”. È lì il luogo privilegiato nel quale voi lo potete vedere, lo potete ascoltare, lo potete incontrare, vi potete nutrire di Lui, partendo da lì per andare ad annunciarlo al mondo intero.
Ho ricordato questo perché riusciamo a capire tutti noi quanto sia importante, allora, ritrovare la relazione tra liturgia e vita cristiana, celebrazione eucaristica e vita cristiana. Perché è lì che la vita cristiana prende forma, perché è lì che Lo incontriamo in modo particolare: il Vivente, Gesù risorto dai morti. È lì che Lo ascoltiamo che parla oggi a noi; è lì che Lo riceviamo come nutrimento per la nostra vita; è lì che partecipiamo al Suo sacrificio redentore; è da lì che ripartiamo come cristiani annunciatori della salvezza in mezzo al mondo.
D’altra parte san Luca, con quel racconto, voleva dire qualche cosa di più, perché nel momento in cui rispondeva a quella domanda e diceva: “Guardate che voi oggi il Signore lo incontrate lì”, aggiungeva anche un’altra cosa: “incontrandolo lì, nella liturgia, nella celebrazione eucaristica, riconoscendolo risorto e vivo lì, voi diventerete capaci di incontrarlo nella quotidianità della vita perché la Messa vi dona i criteri per riconoscerlo, poi, nella quotidianità, nella concretezza delle vostre giornate”. Dunque, per noi, la liturgia, è il luogo privilegiato dell’incontro con il Risorto vivente ma è anche il luogo nel quale impariamo a incontrarlo e impariamo a riconoscerlo nella ordinarietà della vita. Perché poi io Lo so riconoscere negli accadimenti della vita, nelle gioie e nei dolori, negli imprevisti, nei fratelli: certo divento capace di riconoscerlo, ma perché ho imparato a riconoscerlo lì, nella liturgia, in un regime che è un regime di segni.
È il segno che caratterizza la liturgia, un segno sensibile nel quale trovo un incontro con qualcosa di invisibile, che è la presenza del Signore risorto. Io vedo il pane, ma lì vedo il Risorto vivente. Io ascolto una voce umana, ma è lì che conosco la voce del Signore che adesso mi parla. Questa capacità che apprendo in liturgia, di riconosce il Risorto attraverso dei segni sensibili, è qualcosa che poi mi aiuta nella vita a riconoscere Lui, risorto e vivo, nella quotidianità, nella concretezza per cui allora tutto mi parla del Risorto che è con me, tutto mi ricorda che Lui è vicino a me, tutti i giorni fino alla fine del mondo.
Quale rapporto allora tra liturgia e vita cristiana? Un rapporto talmente stretto che se non ci fosse la liturgia non ci sarebbe vita cristiana. E se noi non viviamo la liturgia non possiamo vivere da cristiani, non è possibile. Certo, ricorderemo tutti quello che ci racconta la storia dei martiri dei primi secoli: una comunità molto bella quella di Abitene (siamo nell’antichità cristiana), l’autorità romana chiede ai membri di questa comunità di non radunarsi più la domenica a celebrare l’Eucarestia, pena la morte. E cosa rispondono questi cristiani? Una risposta che rimane esemplare per ogni tempo della storia e comunicativa di una verità fondamentale, per noi anche oggi. Dicono: “Tu non puoi chiederci questo, perché noi senza la domenica (cioè senza la Messa, senza la liturgia) non possiamo vivere”. Loro avevano capito il rapporto tra liturgia e vita cristiana, tra Messa e vita cristiana. “ Non puoi chiederci questo, perché se ci togli questo noi siamo morti, meglio morire”. È la risposta che dovremo noi poter dare nella misura in cui abbiamo capito la relazione tra liturgia, Messa e vita cristiana, la nostra vita.
Ecco perché un documento della Chiesa, a cui questa sera ci riferiremo, la Sacrosantum Concilium, ovvero la grande Costituzione Apostolica del Concilio Vaticano II in cui si tratta proprio del tema della liturgia, definisce la liturgia come “fonte e culmine della vita della Chiesa”, della vita cristiana e dunque della nostra vita. Fonte e culmine. Perché fonte? Perché tutto parte da lì e se non parte da lì, non parte. Culmine, perché la liturgia ci indica anche il punto di arrivo, cioè là verso cui siamo indirizzati, il vertice della nostra vita. È alle radici e al vertice perché fonda la vita cristiana e ci mostra la meta verso cui siamo diretti.
Sarebbe bello se ciascuno di noi, terminato questo incontro, potesse dire dentro di sé: “È proprio vero, io non posso vivere senza la liturgia, io non posso vivere senza la celebrazione eucaristica. Perché io non posso vivere se non mi incontro continuamente con la presenza viva di Gesù risorto oggi, in questo tempo della storia, in questo momento della mia vita”.
Detto questo vorrei adesso, brevemente, spero anche con una certa semplicità, indicare alcuni elementi proprio di vita cristiana che la nostra partecipazione alla liturgia continuamente genera in noi. Perché abbiamo detto non possiamo vivere, in quanto non incontriamo altrimenti il Risorto vivente. Ma questo incontro con il risorto vivente, questa partecipazione allora alla liturgia, alla Messa in modo più dettagliato, in quale modo incide sulla mia vita, in che senso forma la mia vita cristiana, da quale punto di vista mi rende cristiano?

Il primo di questi elementi è il rapporto tra liturgia e Gesù, il Signore. Ecco la parola della Chiesa (SC 7): “Cristo è sempre presente nella Sua Chiesa e in modo speciale nelle azioni liturgiche”.
In fondo è quello che abbiamo cercato di affermare. Ora vorrei darvi un aiuto: siamo abituati la domenica probabilmente anche, a volte, durante la settimana, a cogliere qualche aspetto nel quale, forse non sempre ci accorgiamo che questo rapporto, tra liturgia e Gesù il Signore, è così stretto. Soprattutto nelle messe domenicali, in quelle più solenni, ma comunque sempre, noi partecipiamo, anche se magari rimanendo fermi al nostro posto, ad una processione d’ingresso. E noi probabilmente a volte pensiamo che questo costituisca semplicemente un modo di iniziare. Ma la processione d’ingresso richiama, è il segno dell’ingresso del Signore tra i suoi, tra noi che siamo radunati. In qualche modo è come se attraverso questo segno processionale noi vivessimo il mistero della reincarnazione: il Dio che si fa uomo e viene tra noi. Questa è la realtà che noi viviamo e celebriamo in una liturgia attraverso la processione: l’introdursi nuovamente del Signore vivo in mezzo a noi.
Pensiamo ad un’altra forma processionale che è quella che si compie verso l’ambone al momento in cui viene proclamata la Parola, soprattutto attraverso il Vangelo: tutti siamo invitati a volgere lo sguardo possibilmente, certamente il cuore e l’ascolto verso l’ambone. Perché? Perché in quel momento è la Parola di Gesù che risuona, è lui presente, vivo, che ci sta parlando attraverso una voce umana, ma è Sua la Parola che risuona.
La processione al momento dell’offertorio quando alcuni di noi, in rappresentanza di tutti, presentano i doni per l’Eucarestia. Lì ci rivolgiamo di nuovo con lo sguardo, con il cuore, con l’attenzione verso l’altare, perché l’altare diventa il luogo e il segno in cui il Signore si fa vivo per noi nel sacrificio redentore, nel Suo Corpo e nel Suo Sangue.
E la processione conclusiva, quando i ministri lasciano l’altare e ritornano in sacrestia, non è una semplice conclusione: è qualcosa che compiamo tutti noi portando il Signore risorto che abbiamo incontrato, fuori insieme a noi.
Queste quattro processioni sono segni sensibili attraverso i quali la presenza del Signore Gesù risorto si rende presente, visibile per noi. Ecco il rapporto liturgia e Gesù risorto.
Un altro aspetto del rito: quando noi rispondiamo dopo la consacrazione a ciò che il celebrante annuncia: “mistero della fede”. Che cosa rispondiamo? “Annunciamo la tua morte, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Quindi annunciamo qualcosa che è stato, la morte; proclamiamo la risurrezione, la presenza qui, adesso; in attesa della tua venuta nella gloria. Lì con le parole affermiamo questa verità del rapporto liturgia e Cristo risorto presente tra di noi.
Poi il saluto liturgico che tante volte si ripropone dentro una celebrazione, quello per cui si apre un dialogo, il celebrante dice: “Il Signore sia con voi”; e l’assemblea risponde: “E con il tuo spirito”. Vedi: “il Signore sia”, c’è, ma sia realmente con voi, chi? Il Signore risorto. Ci scambiamo questo augurio, che il risorto che è presente, davvero realizzi questa presenza nella nostra vita attraverso il rito che stiamo celebrando. Continuamente, dunque. Celebrazione liturgica richiama la presenza viva del Risorto tra noi.
In questo senso, e chiamerei questa la conseguenza, la liturgia ci aiuta a ripetere una parola che ascoltiamo in una lettera dell’apostolo Paolo quando egli dice: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21). Perché allora la liturgia fa la nostra vita cristiana, perché la liturgia ci mette in relazione con il Signore Gesù risorto e vivo e ci aiuta a fare in modo che lui sia la nostra vita e che possiamo ogni volta uscire dal luogo sacro potendo dire con maggiore verità: “Sì, oggi l’ho incontrato di nuovo, per me vivere è Lui, per me vivere è una persona, per me vivere è Cristo”.
Un’immagine attraverso un semplice racconto che qualche volta mi capita di proporre e di condividere.
C’era un istruttore molto bravo di una disciplina sportiva un po’ particolare: il tiro con l’arco. Aveva messo in piedi una scuola e per tutto l’anno aveva istruito un certo numero di ragazzi. Terminato l’anno volle far loro sperimentare una piccola competizione, una gara tra di loro. Allora li invitò ad andare con lui su un grande prato ai cui bordi iniziava un bosco. Su un tronco d’albero al limitare del bosco fece mettere un cerchio rosso. Poi con i suoi ragazzi andò all’altro limitare di questo grande prato e lì invitò i ragazzi a cominciare a tirare con il loro arco. Un giovane più coraggioso si fece avanti per primo, si preparò, tese l’arco, ma prima di poter lanciare la sua freccia l’istruttore gli chiese: “Tu vedi là in fondo gli alberi del bosco?”. E il giovane gli rispose: “Sì, li vedo”. E poi gli chiese: “Ma vedi anche quegli uccellini che volano?”. Dice: “Sì, li vedo”. Allora l’istruttore, in modo un po’ sorprendente per il giovane, disse: “Vai a posto: tu non sei ancora pronto per tirare”. Si fece avanti un secondo giovane e gli pose le stesse domande. Prima gli disse: “Tu lo vedi quell’albero?”. E lui disse: “Sì lo vedo”. Poi gli chiese anche degli uccellini e di nuovo questo ragazzo rispose: “Sì”. E anche a lui disse: “Non sei pronto neanche tu, torna a posto”. Così fece con un terzo e con un quarto, tanto che i ragazzi tra loro cominciavano un po’ a parlare, non capivano bene la situazione. Comunque si fece avanti un altro e anche a questo ragazzo l’istruttore pose la domanda: “Tu li vedi quegli alberi?”. Questo ragazzo invece disse: “No, non vedo nessun albero”. Poi gli chiese se vedesse gli uccellini e il ragazzo gli disse: “No, non vedo neanche gli uccellini”. Allora a lui l’istruttore chiese: “Ma allora, insomma, dimmi un po’, che cosa vedi?”. E il ragazzo gli disse: “Mah, io vedo un cerchio rosso”. E l’istruttore gli disse allora: “Tu sei pronto, tira!”. E fece centro.
Io in genere racconto questo episodio molto semplice perché la liturgia ci aiuta a non perdere di vista il cerchio rosso che è Gesù. Noi spesso, anche nella nostra vita cristiana, ci fermiamo a ciò che è conseguenza e rischiamo di perdere di vista il cuore, il centro, quel centro rosso che è il Signore risorto e vivo. La liturgia ci aiuta a rimettere a fuoco il cerchio rosso da cui tutto il resto consegue, deriva. Ma consegue, deriva. La nostra identità è soprattutto lì in questa appartenenza al Signore per cui diciamo: “Per me vivere è Cristo”.

Un secondo aspetto è il rapporto tra liturgia e Chiesa. Anche qui una parola della Chiesa (SC 7): “perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote del Suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza”.
Dunque, ci viene ricordato che ogni celebrazione liturgica è opera di Cristo, certo, ma è opera anche della Chiesa. Quindi, se in liturgia entriamo in relazione con la presenza del Signore risorto in mezzo a noi, in liturgia entriamo in relazione viva con la Chiesa che è presente, che è operante nella celebrazione dei misteri.
Anche qui, consideriamo brevemente alcuni aspetti del rito. A voi sembra che nella preghiera liturgica usiamo l’io singolare? No, usiamo sempre il noi, al plurale. Perché? Perché non siamo noi individualmente in quel momento, che viviamo quell’atto, quel rito, ma siamo noi come Chiesa che lo viviamo. Non è la nostra preghiera personale, che è importantissima, ma che noi viviamo in liturgia in modo primario: è la preghiera ecclesiale del noi col quale ci rivolgiamo al Signore, perché noi in quel momento esprimiamo la realtà della Chiesa e la Chiesa si esprime attraverso di noi, attraverso la nostra voce, attraverso i nostri gesti, attraverso i nostri atti, attraverso la nostra preghiera.
D’altronde quello di trovarci insieme, di usare parole comuni, quel compiere gesti comuni, ci ricorda proprio questo: che quello che viviamo è un atto che ci supera, perché non è un atto individuale ma è un atto comunitario, è un atto ecclesiale. Qui, mi permetto una piccolissima digressione. Questa è una grande ricchezza, perché ci permette di entrare in una realtà che è più grande di noi; e questo è anche il motivo per cui noi della liturgia non possiamo disporre a piacimento, come se fosse cosa nostra. Perché non ci appartiene, è della Chiesa e noi ci entriamo dentro e ci entriamo dentro con grande attenzione, perché non possiamo e non vogliamo rovinare questa realtà preziosa che ci viene donata perché noi la viviamo. E nello stesso tempo la liturgia, proprio per questo motivo, ha una oggettività: cioè, se nella preghiera personale io posso esprimere la mia soggettività, perché posso esprimere il mio stato d’animo, posso esprimere quel momento di vita in cui mi trovo, posso esprimere anche la mia spiritualità più individuale, posso esprimermi insomma come soggetto; nella liturgia, proprio perché è la preghiera della Chiesa, io sono invitato un po’ a spogliarmi da tutto questo e ad accogliere quello che mi viene dato, ricevo ed è una cosa bella, perché i doni si ricevono e ci sorprendono. È un atto della Chiesa che mi è donato, che dunque non è nella mia disponibilità soggettiva ed è un atto della Chiesa che mi è donato e che ricevo con sorpresa e con gratitudine.
La conseguenza di questo rapporto liturgia – Chiesa è che noi in liturgia impariamo ad amare la Chiesa, ad amarla per quello che è davvero, nei suoi contenuti più profondi, nei suoi contenuti più belli, perché la Chiesa, poverina, è questo, quello che noi viviamo e sperimentiamo dentro una celebrazione liturgica. E se uscendo dalla chiesa, dobbiamo poter ripetere, con maggiore intensità: “Per me vivere è Cristo”, uscendo dalla chiesa, dopo la celebrazione dobbiamo poter ripetere, come scriveva Sant’Agostino: “Quando parlo della Chiesa, non finirei più”. O come diceva Madeleine Delbrêl, una francese di cui è in corso la causa di beatificazione: “Vorrei scrivere la parola Chiesa in tutte le righe, ogni volta che scrivo la parola Dio”. Ecco noi dovremmo uscire dicendo: “Per me vivere è Cristo”, e poi: “Come è bella la Chiesa”. La liturgia ci fa più cristiani perché ci orienta al centro che è il Signore è risorto; ci fa più cristiani perché ci immerge di più nell’esperienza della Chiesa; ce la fa conoscere, ce la fa sperimentare, ce la fa amare.

Terzo elemento è il rapporto tra liturgia e adorazione. La parola alla Chiesa, di nuovo alla SC 48. Cosa si dice lì: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei, comuni spettatori a questo mistero di fede ma che comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente”.
Ci si potrebbe chiedere: in questo testo si parla più che altro di partecipazione, partecipazione consapevole, pia, attiva; perché allora il tema che abbiamo indicato è il rapporto liturgia e adorazione? Perché in verità, partecipare davvero, pienamente, attivamente, consapevolmente alla liturgia significa adorare, cioè significa entrare nell’atto di adorazione con cui Gesù si dona al Padre perché diventi anche il nostro. Cioè significa aderire, con l’intelligenza, con il cuore, con i sentimenti, con la vita, al progetto di Dio su noi. Certo: la partecipazione liturgica è ecclesiale, quindi passa attraverso, l’abbiamo detto, delle parole che diciamo e che capiamo, delle parole dette insieme, dei gesti che compiamo, delle azioni, anche, che realizziamo; ma tutto questo, non sarebbe realmente un partecipare se non ci conducesse a adorare, cioè a aderire al disegno dell’amore di Dio su di noi. Ecco perché liturgia e adorazione.
Nel rito, ho già accennato, il cuore del rito è quel momento nel quale il Signore Gesù, rinnovando il proprio sacrificio, per la salvezza di tutti noi, si abbandona alla volontà del Padre, in un atto di adorazione perfetta. Perché quando offre la propria vita, Gesù compie questo. Dunque, noi viviamo in liturgia l’atto perfetto dell’adorazione, lo viviamo e dobbiamo entrarci dentro. Ecco perché la liturgia è il rapporto con la adorazione, perché in effetti la liturgia è la celebrazione dell’atto di adorazione con cui il Signore Gesù ha dato se stesso totalmente a Dio per la nostra salvezza.
Che cos’è il silenzio nel rito? Non è una pausa tra un momento e l’altro. Ci sono tanti silenzi nel rito: c’è un silenzio dopo l’invito all’atto penitenziale; c’è un silenzio dopo la liturgia della Parola; c’è un silenzio dopo la comunione. Sono silenzi di adorazione, cioè silenzi nei quali noi siamo chiamati nell’intimità del cuore a dire “sì” a Dio che ci ha parlato, a Dio che si è comunicato, a quel Signore che si rende presente lì, attraverso il rito liturgico. Pensate, non sempre lo avvertiamo, a ciò che accade durante la grande preghiera eucaristica: può succedere che noi sentiamo un certo disagio a rimanere in silenzio, mentre il celebrante pronuncia questa grande preghiera. Eppure, quel silenzio, nel quale noi siamo, è un silenzio adorante, perché è un silenzio che ascolta ed entra dentro in questa adorazione perfetta di Gesù. E come si conclude? Con quel canto, con quella parola che il celebrante dice: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo a Te Dio Padre onnipotente…”; e qual è la nostra parola, meglio se cantata? “Amen”. Cioè concludiamo con una parola che dice la adesione, cioè frutto della adorazione che abbiamo compiuto. Quel silenzio non è dunque un qualcosa in cui noi “facciamo” ma è un silenzio in cui facciamo ciò che è più importante: entriamo dentro l’abbandono di Gesù al Padre per renderlo nostro, dicendo alla fine: “amen, sì, voglio che diventi anche il mio questo eccomi, questo sì, questo abbandono alla volontà di Dio sulla mia vita”.

Quarto momento è la liturgia che orienta la nostra vita. La parola della Chiesa, anche qui, nella SC 10: “La liturgia spinge i fedeli, nutriti di sacramenti pasquali a vivere in perfetta unione, prega perché gli ispirino nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede”.
Qui faccio un unico riferimento, per quanto riguarda il rito: all’inizio della liturgia eucaristica il sacerdote si rivolge all’assemblea invitandola a qualcosa di molto importante e dice: “In alto i cuori”. E tutti rispondiamo (chissà se rispondiamo proprio consapevolmente): “Sono rivolti al Signore”. Dunque, è un momento nel quale reciprocamente ci invitiamo a volgere il cuore, quindi anche la vita verso il Signore perché sia il centro. Perché questo invito a rivolgerci verso il Signore? Perché, come dicevamo all’inizio, noi tante volte entriamo nella Messa, nella celebrazione di-so-rien-ta-ti, strappati qua e là perché il nostro vivere in mezzo alle cose del mondo spesso ci porta ad essere strattonati da una cosa, da un’altra cosa e il cuore risulta diviso, ed è per questo, anche, che perde la pace. La liturgia è tutto come un risucchiarci verso colui che è il centro, “in alto i cuori”.
Credo che tutti noi abbiamo visto o perché ci siamo stati, o perché l’abbiamo notato su un libro, quelle chiese antiche molto belle nelle quali gli artisti, soprattutto bizantini, coloro che facevano i mosaici, realizzavano sulle absidi (cioè sulla parte soprastante l’altare) il disegno di Cristo, ma un disegno molto grande così detto il “Cristo pantocratore”. Perché questi artisti realizzavano la figura del Cristo pantocratore, così grande, capace quasi di avvolgere totalmente l’attenzione di colui che entrava nello spazio sacro? Perché entrare dentro il luogo della celebrazione doveva significare un sentirsi risucchiati verso l’alto come a dire: “Tu che entri con il tuo cuore diviso, strappato, forse venduto al miglior offerente sul mercato del mondo, ritrova la tua unità, il tuo cuore unito, verso il Signore; alza il cuore verso l’alto”.
D’altronde, per tornare un attimo al rito, pensate quante realtà in natura noi usiamo nel rito liturgico: l’acqua, il vino, il pane, la luce, il fuoco, la luce, i fiori, lo spazio: tutto. Solo che all’interno della celebrazione tutti questi elementi, che noi possiamo trovare anche al di fuori dello spazio sacro, assumono un significato diverso e tutti sono veicolanti un’unica presenza: quella del Signore. Noi veniamo dunque unificati perché tornando nella nostra realtà possiamo viverlo così unificati e dunque vivendo nelle realtà temporali, dentro la realtà di questo mondo, portandole a Dio. Cosa che spesso, purtroppo, non ci succede. Qual è allora la conseguenza di questa relazione tra liturgia e orientamento? È che grazie alla liturgia, grazie alla celebrazione, noi diventiamo capaci di avere uno sguardo sulle cose del mondo che sa andare al di là del visibile, sa trovarvi la presenza del Signore e, soprattutto, sa servirsene in ordine alla vita cristiana, in ordine alla santità, in ordine alla salvezza.
Quando parliamo di animazione cristiana delle realtà temporali, vuol dire farle servire alla vita cristiana, vuol dire averle in mano essendo capaci di orientarle nella logica della fede, di viverle evangelicamente. Dov’è che impariamo questo? In liturgia. Ecco il rapporto, ancora, con la vita cristiana.

Ecco allora il quinto elemento che ci fa capire perché la liturgia fa la vita cristiana, perché anima la carità ed è alla radice della carità nella vita di tutti i giorni: liturgia e vita eterna. La parola della Chiesa, SC 8: “Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene celebrata dalla Santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini dove il Cristo siede alla destra di Dio”.
Una parola breve sul rito. Cosa diciamo nel Padre Nostro? “Venga il Tuo regno”, cioè scopriamo il desiderio dell’eternità. Che cosa cantiamo nel santo? Cantiamo il canto degli angeli e dei santi, cioè ci uniamo al canto del paradiso. Che cosa dice il sacerdote nell’embolismo, la preghiera che segue subito il Padre Nostro? “In attesa della beata speranza”. La preghiera tutta che viviamo nella liturgia è un continuo richiamo alla realtà del Cielo, sì, è un continuo richiamo alla realtà del Cielo.
Dunque, in liturgia noi entriamo dentro un luogo che ci mette in comunione con l’eternità di Dio e ci ricorda che noi siamo in cammino e pellegrini verso l’eternità di Dio.
Da questo punto di vista vivere la liturgia significa riscoprire la vita come pellegrinaggio e non dimenticare, ricordare, fare memoria che la nostra esistenza non è tutta qui, che siamo incamminati verso un’altra meta, che ci attende una patria, che la felicità è un’altra e il fondamento di ogni speranza è quello: la Gerusalemme del Cielo. I Padri antichi amavano dire che nella liturgia “il cielo si affaccia sulla terra”. In che senso? Nel senso che nella liturgia già viviamo in un modo certo annebbiato, però vero, la comunione tra noi e le realtà eterne; tra noi Chiesa in cammino e la Chiesa che è giunta alla meta; tra noi che ancora siamo qui e coloro che già sono arrivati; è un’esperienza di eternità che desta la speranza e ci ricorda che la vita è un pellegrinaggio e che la bellezza è andare verso colui che ci attende: il Signore risorto.
Una vecchietta serena, sul letto d’ospedale, parlava con il parroco, che era venuto a visitarla.
“Il Signore mi ha donato una vita bellissima. Sono pronta a partire”.
“Lo so” mormorò il parroco.
“C’è una cosa che desidero. Quando mi seppelliranno voglio avere un cucchiaino in mano”.
“Un cucchiaino?”. Il buon parroco si mostrò autenticamente sorpreso.
“Perché vuoi essere sepolta con un cucchiaino in mano?”.
“Mi è sempre piaciuto partecipare ai pranzi e alle cene delle feste in parrocchia.
Quando arrivavo al mio posto guardavo subito se c’era il cucchiaino vicino al piatto.
Sa che cosa voleva dire? Che alla fine sarebbero arrivati il dolce e il gelato”.
“E allora?”.
“Significava che il meglio arrivava alla fine!
E’ proprio questo che voglio dire al mio funerale.
Quando passeranno vicino alla mia bara si chiederanno: ‘Perché quel cucchiaino?’.
Voglio che lei risponda che io ho il cucchiaino perché sta arrivando il meglio”.

 

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Le foto del Convegno Liturgico Diocesano

 

A breve online il video.